
Mil ojos esconde la noche. 1. La ciudad sin luz
Juan Manuel de Prada (Baracaldo, 1970), è senza uno dei massimi autori del nuovo secolo, riconosciuto come tale anche da scrittori come Arturo Pérez-Reverte, membro della Real Academia Espñola, che ha definito Las máscaras del héroe (1996) «il miglior romanzo spagnolo degli ultimi vent’anni» (Sobre Borges y sobre gilipollas, 31 gennaio 2000), dopo aver avuto parole di elogio per i sui esordi («romanziere di qualità superiore» (Un novelista de pata negra, in «El Semanal», 28 ottobre 1996) e come il regista Alex de la Iglesia, che proprio parlando di questo suo ultimo libro ha affermato che è «divertente e si legge in un niente, nonostante le sue 800 pagine, perché è scritto da quello che ritengo il miglior scrittore spagnolo attuale», paragonando Mil ojos esconde la noche ad alcuni film di Scorsese.
Nato in Biscaglia e cresciuto a Zamora, giornalista di spicco (collabora continuativamente con il quotidiano ABC ed il settimanale culturale «XL», Juan Manuel de Prada ha condotto per anni Lágrimas en la lluvia, forse la migliore trasmissione culturale dell’intera storia della televisione (non solo spagnola), caratterizzata da un palinsesto che prevedeva il dibattito su un tema predefinito da parte di quattro autorevoli studiosi, dopo la visione di un film in tema con l’argomento scelto. La trasmissione era in diretta differita, quantunque possa sembrare incredibile nel rivedere le registrazioni, perché – a differenza degli usuali dibattiti televisivi contrassegnati da una costante gazzarra – imperava un assoluto rispetto da parte di tutti i partecipanti, nonostante le posizioni avverse.
Scrittore raffinatissimo, caratterizzato da uno stile molto personale, definito “neobarocco” (in particolare utilizza un numero di vocaboli molto superiore a quello della media degli scrittori contemporanei) ed “esperpentico” (uno stile nato nella Spagna del Siglo de oro con Francisco de Quevedo e riproposto negli anni Venti dello scorso secolo da Ramón del Valle-Inclán, che si potrebbe tradurre alla lontana con “grottesco” o “granghignolesco”), creatore di affascinanti neologismi, Manuel de Prada nei suoi interventi giornalistici ha difeso la filosofia perenne, avendo il coraggio di indicare – tra gli altri – Aristotele, la Bibbia e San Tommaso d’Aquino come fonti d’ispirazione. Non a caso, una sua recente raccolta di saggi, si intitola emblematicamente Una enmienda a la totalidad. El pensamiento tradicional contra las ideologías modernas (Emendamento alla totalità. Il pensiero tradizionale contro le ideologie moderne, 2021).
Tra le sue opere di narrativa (ma anche gli scritti saggistici e gli stessi articoli giornalistici sono sempre caratterizzati da un sapore letterario) vanno annoverati i romanzi La tempestad (1997), Las esquinas del aire: en busca de Ana María Martínez Sagi (2000), La vida invisible (2003), El séptimo velo (2007), Me hallará la muerte (2012), vincitori di premi letterari e spesso tradotti in italiano: Il silenzio del pattinatore (E/O, 2002), Le maschere dell’eroe (E/O, 2000), La tempesta (E/O, 1998 e 2001), Gli angoli dell’aria. Alla ricerca di Ana Maria Martinez Sagi (E/O, 2001), La vita invisibile (E/O, 2006), Il settimo velo (Longanesi, 2008; TEA, 2010).
Tra i suoi romanzi più recenti – che meriterebbero una traduzione – vanno menzionati El castillo de diamante (2015), sulla vita di Santa Teresa d’Ávila, e Morir bajo tu cielo (Morire sotto il tuo cielo, 2014), sugli “ultimi delle Filippine”, cioè i cinquantuno eroi del distaccamento asserragliato nella chiesa del villaggio di Baler, nell’isola di Luzón, che resistettero per 337 giorni (1° luglio 1898 – 2 giugno 1899) all’assedio della preponderante forza dei ribelli filippini (800 uomini). Come a Civitella del Tronto nel 1861, il comandante, privo di contatti con il mondo esterno, non volle credere alla notizia che la Spagna avesse capitolato e continuò a combattere, provocando circa 700 morti tra gli assedianti e limitando le proprie perdite a 17 uomini.
Venendo a Mil ojos esconde la noche. La ciudad sin luz, va detto che è difficile poter giudicare un romanzo, sapendo che quanto si è letto – peraltro con continuo godimento e trasporto – corrisponde solo alla prima metà di un testo di 1.600 pagine scritte – udite, udite! – a mano usando carta riciclata (nel senso del dorso di documenti vari: esistono alcune fotografie a confermare la veridicità di questa asserzione). Afferma il medesimo autore: «Non è lo stesso scrivere a mano su carta, impugnando la penna, che farlo su uno schermo, mediante il soave ticchettio di una tastiera, con un computer. Quando uno scrive a mano, le parole palpitano ed esultano, vibrano e si legano, si sposano e fecondano in una maniera diversa e più intensa; in una manera che alcuni forse noteranno, leggendo Mil ojos esconde la noche. Ma il problema di scrivere a mano è che dopo bisogna ribattere lo scritto, perché nelle case editrici ormai sono andati in pensione quei tipografi che un tempo decifravano (e a volte miglioravano) i manoscritti dei nostri classici». Una impresa che in questo caso è stata portata a termine dal padre dello scrittore, il quale «può essere legittimamente considerato come autore consorte».
Tornando al contenuto dell’opera, e consci che per un giudizio finale occorrerà aspettare la pubblicazione della seconda parte, Carcere di tenebre, va innanzitutto specificato che Mil ojos esconde la noche non è la continuazione de Le maschere dell’eroe, ma ne condivide l’io narrante, Fernando Navales. Costui è un convinto (almeno per ora) falangista, critico per le deviazioni moderate imposte dal disprezzato Franco al suo movimento.
Una parentesi: Francisco Franco, va ricordato – o forse spiegato – non era affatto un falangista né un tradizionalista, bensì militare indifferenze alla Monarchia come alla Repubblica, privo di una particolare ideologia propria; un conservatore che si seppe adattare alla situazione e, soprattutto, seppe mantenere a lungo il potere assoluto, inizialmente conferitogli solo per il periodo bellico, dimostrando un attaccamento alla poltrona degno del “miglior” Andreotti. Insomma, un perfetto democristiano. Chiusa parentesi.
Siamo nel 1940, nella Parigi occupata dai Tedeschi, e Fernando Navales viene incaricato avvicinare i dissidenti spagnoli che dopo la guerra civile si sono rifugiati nella capitale francese per convincerli a collaborare con una associazione artistica ufficialmente promossa, a fini di riappacificamento, dal nuovo regime di Madrid.
Navales contatta quindi i vari artisti ed uomini di cultura espatriati, nel tentativo di una “riconciliazione nazionale” che (per il momento, cioè almeno finché l’Asse sembra invincibile) riesce perché vari dissidenti desiderano accumulare benemerenze per rientrare in patria, per la gloria di essere considerati grandi oppure, più semplicemente, per sbarcare il lunario. Il protagonista offre collaborazioni a (o citazioni su) giornali di spicco (ma per scrivere o per essere elogiati sui quali bisogna ufficialmente schierarsi), come il celebre (o famigerato) Je suis partout; la possibilità di lavorare nelle accoglienti sale della accademia ufficiale spagnola, anziché in squallide soffitte non riscaldate; di avere a disposizione materiali (tele, pennelli, colori) e modelle; di ricevere interessanti sovvenzioni tramite l’ufficio di propaganda tedesco (vale a dire da Goebbels), anch’esso interessato a creare un ambiente di pacificazione culturale volto a giustificare il regime di occupazione.
Numerosi sono i personaggi reali che il falangista incontra e che cerca di attrarre alla propria causa: giornalisti e critici (César González-Ruano, Sebastià Gasch), attrici e ballerine (María Casares, Ana de Pombo), disegnatori (Carles Fontserè), pittori (Óscar Domínguez, Manuel Viola), scultori (Mateo Hernández), pensatori (l’endocrinologo e filosofo Gregorio Marañón)… Molti di questi nomi risultano poco noti al pubblico italiano medio, ma si è spinti a leggere le loro biografie (o almeno le pagine enciclopediche a loro dedicate), non fosse altro che per assicurarsi che siano realmente esistiti (come altri personaggi del corpo diplomatico o della polizia politica: Pedro Urraca, José Félix de Lequerica e Bernardo Rolland).
Sicuramente non ha invece bisogno di ricerche la figura di Picasso, sul quale Juan Manuel de Prada scrive pagine memorabilmente deliziose in cui smonta il ritratto di artista eccelso, svelandone la natura narcisistica e riducendolo a “pintamonas” (imbrattatele), pur riconoscendone la straordinaria abilità di trasformare in oro quanto tocca, pronto a sfruttare il dubbio gusto dei suoi ammiratori e ad approfittare di qualsiasi occasione per far soldi, anche mettendosi d’accordo con un bravo falsario ed autorizzandolo a diffondere sue copie come autentiche, purché gli versi il 50% degli introiti…
Calunnie letterarie, falsificazioni novellistiche? L’autore lo nega, ricordando il proprio profondo studio archivistico sull’ambiente della comunità spagnola residente a Parigi; e in particolare, sull’“imbrattatele” di Malaga, afferma: «Su Pablo Picasso abbiamo letto tutte le biografie, le agiografie e le demonografie possibili e immaginabili, tanto da farci un’opinione su un personaggio tanto famoso ed infame».
Naturalmente, Navales non riesce (ma a dire la verità, non lo tenta nemmeno) a convincere Picasso ad entrare nell’accademia “ufficiale” della Spagna franchista: troppo ricco (conserva vari lingotti d’oro in casa) per accettare sussidi, troppo internazionale per essere interessato a tornare in patria, troppo famoso per necessitare protezione (i Tedeschi hanno l’ordine di non torcergli un capello). Ma soprattutto troppo pieno di sé per mettersi alla pari di altri artisti.
Memorabile il secondo incontro con il pittore cubista: «Impetrai udienza a Sabartés, il cerbero innamorato di Picasso, che me la concesse per la mattina della Domenica di Pasqua, perché l’imbrattatele non osservava le feste (o, più precisamente, si considerava un dio tarchiato a cui consacrarle tutte)».
Al colloquio è presente anche Ernst Jünger, allora capitano della Wermacht di stanza a Parigi, venuto a riverire «il genio dell’arte internazionale». Annoiato dalle banalità sulle bellezze parigine profuse dallo scrittore tedesco mentre aspettano (il suddetto «genio» si diverte a farli attendere), Navales commenta tra sé e sé: «Tutto il repertorio arcinoto, insomma, dei barbari del Nord, sommersi dalla nebbia, di fronte ai frutti della luce latina». Finalmente vengono ricevuti e «l’uomo più famoso del mondo» (parola di Jünger!) si presenta
«in calzoni corti, con una mappa dettagliatissima delle sue ultime minzioni sulla patta. […] Dopo essersi grattato lo scroto, si annusò la mano con piacere, prima di stringere quella del capitan Jünger, che trattava, non so se umoristicamente, da gloria delle lettere tedesche. Anche Jünger si annusò la mano dopo averla stretta a Picasso, con gesto di rassegnato disgusto, come chi deve ingoiare una brodaglia esotica, per non sembrare scortese al suo ospite giunto da qualche remota selva».
E quando il Tedesco si lancia in un’altisonante interpretazione di Guernica,
«Picasso gli sgonfiò il sufflè dell’entusiasmo lirico, prima che traboccasse:
– Va bene, va bene; cerchiamo di non esagerare, altrimenti mi scoppiano le emorroidi. Sulla mia Guernica sono state fatte tutte le interpretazioni possibili e tutte mi sembrano meravigliose. Ma la verità è che, dato che non avevo letto niente sul celebre bombardamento, che non conoscevo né Guernica, né nulla di nulla, non sapevo come affrontare l’incarico che mi era stato assegnato. Allora il poeta Juan Larrea mi disse: «Pablo, tu hai sempre avuto una predilezione per la corrida. Immaginati, quindi, un toro che entra nell’arena, che viene infilzato da una marea di colpi di lancia e di banderillas infuocate, che riesce a scappare dalla plaza de toros furioso e insanguinato. Sbattendo a terra tutto ciò che incontra davanti a sé, entra in un negozio di porcellana, che distrugge, facendola a pezzi. Capisci? È questo che avviene in un bombardamento». Ed è questo quello che ho dipinto: una corrida finita male, con il cavallo del picador imbizzarrito, il matador a terra, la sua cuadrilla impegnata nel quite e il toro che sta investendo una donna con il suo bambino. Né più né meno.
E dato che il capitan Jünger era rimasto in parte attonito e in parte intimorito dalla risposta bestiale e dal fragore dello scoppio di risa che la aveva accolta, Picasso gli batté sulla spalla, come se avesse voluto riaprirgli le cicatrici che si era guadagnato nella precedente guerra».
Questo passaggio, con tanto di citazione da Nelle tempeste di acciaio (in cui Jünger enumera le ferite ricevute, conteggiando però solo i “fori di entrata” dei proiettili nemici ed escludendo quelli di uscita) è solo un assaggio dello stile esperpentico di Juan Manuel de Prada, della sua eccezionale capacità di scrittore, del suo modo di riscrivere la storia e di creare una trama affascinante.
Di conseguenza, giunti al termine del volume (caratterizzato da un passaggio finale che spiazza il lettore) e nonostante la sua mole, si desidera continuare a leggere le vicende di Fernando Navales, che – al di là dei suoi incontri con personaggi più o meno noti del tempo – sono costruite con una trama avvincente.
E si spera che, al più presto, Prada ci riveli anche quelle vissute da Navales durante la guerra civile, compiendo la promessa posta alla fine del libro, prima di ammonire: «Ma, come abbiamo già detto in altre occasioni, non scriviamo per la generazione presente, bensì per coloro che sono già morti e per quelli che non sono ancora nati; tra i quali ovviamente conto te, amato lettore, mon semblable, mon frère».
Gianandrea de Antonellis
Juan Manuel de Prada, Mil ojos esconde la noche. La ciudad sin luz, Espasa, Madrid 2024, p. 800
La recensione è stata inizialmente pubblicata sulla rivista Sinestesieonline, che ringraziamo per la cortese concessione a riprodurla qui.
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