Perché la collana “Napoli imperiale ispanica”

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In occasione dei cento anni dalla nascita del filosofo del diritto e storico Francisco Elías de Tejada (1917-1978) e sulla scia della pubblicazione da parte della casa editrice Controcorrente di Napoli spagnola, traduzione del suo ponderoso saggio in cinque volumi Nápoles hispánico, opera imprescindibile per chi voglia avvicinarsi alla storia, tuttora non abbastanza ben studiata, della cosiddetta Napoli vicereale (ma forse sarebbe più corretto dire: imperiale), è nata l’idea di creare una collana che affiancasse al saggio dello storico andaluso la riproposizione di alcuni lavori da lui citati e pressoché dimenticati, per metterli a disposizione del dibattito storiografico e filosofico-politico.

Il primo volume individuato è il Trattato del Principe (editio princeps: 1624) di Francesco Lanario, Duca di Carpignano (1588-1624), il cui maggior valore consiste nella redazione di un Principe antitetico a quello di Machiavelli, che ribalta gli assiomi principali – e sostanzialmente amorali – del Segretario fiorentino, a cominciare dal celeberrimo «è molto più sicuro essere temuto che amato» (cap. XVII). Per il Duca di Carpignano, al contrario, «quel Principe è più buono, che procura d’essere dai suoi piuttosto amato che temuto» (Consiglio 51).

E ciò è assolutamente coerente con le altre caratteristiche che vengono individuate per il perfetto Principe dalla mentalità ispano-napoletana – perché studiando i vari autori che operarono nella Napoli imperiale emerge un pensiero che possiamo a ragione definire ispano-napoletano –; ad esempio, viene auspicato un Sovrano che non si ritenga legibus solutus, ma chesi sottometta alla legge naturale: «Dionisio […] disse a sua madre che egli poteva molto bene dispensare alle leggi e costumi di Siracusa, ma non alle leggi della natura» (Cons. 260); un Principe che voglia e debba dare il giusto esempio ai propri sudditi, poiché – al contrario di quanto si pensa usualmente – se può essere vero che “ogni popolo ha il governante che si merita”, è ancor più vero che i governanti influiscono sui governati ben più di quanto siano l’espressione dei loro sottoposti: «la benignità del Principe è una calamita che tira a sé i cuori di ferro e li costringe a mutar natura, e a divenire teneri e amorosi […]. E con questa [benignità] signoreggia i suoi vassalli più che con la forza e con la potenza, e ‹g›li obbliga a pregare continuamente Iddio per l’accrescimento del suo Stato, per la felicità della sua persona e per la lunghezza della vita» (Cons. 84).

Insomma, Francesco Lanario cerca con il suo Trattato di indirizzare il Sovrano, nella fattispecie Filippo IV, verso l’obiettivo di ricomporre la gravissima frattura tra etica e politica – di cui era espressione (o causa?) il pensiero di Machiavelli – e che si poneva in linea con quella serie di successive fratture – religiosa, etica, politica, giuridica – che aveva portato dalla Christianitas maior alla Christianitas minor (intendendo con quest’ultima la Monarchia ispanica contrapposta all’Europa), come ha per primo evidenziato Francisco Elías de Tejada[1].

Nonostante la programmatica idealizzazione del Monarca, il testo di Lanario è più concreto di quanto non possa sembrare anche perché, a differenza dell’opera di Machiavelli, non si rivolgeva a un qualsiasi immaginario “Principe nuovo”[2], ma aveva come riferimento concreto il Re di Napoli, nonché Re delle Spagne, Filippo IV, il “Re Pianeta”, ed il suo valido, il Conte Duca di Olivares.

Tra gli elementi caratteristici del Trattato ci sono le fonti degli esempi utilizzate da Lanario per suffragare – anzi, da cui fa discendere – i propri consigli: la Sacra Scrittura, con i suoi oltre 450 esempi, sovrasta enormemente la Patristica e la Scolastica (una decina di esempi), la cultura classica (una ventina) e quella umanistica (una quindicina). Da un lato tale scelta è frutto di una mentalità che riteneva la Bibbia una fonte dottrinaria incomparabile (non era ancora sorto un qualche Generale dei Gesuiti a destituirla di fondamento sostenendo la mancanza di registrazioni fonografiche…); d’altro canto rifarsi alla Parola di Dio, anziché a quella degli uomini, indica il desiderio di elevare il livello della questione trattata da un piano meramente umano ad uno teologico.

Il risultato è una politologia che basa i propri princìpi sulla roccia della religione (e quindi del buono e del giusto) e non sulle instabili sabbie dell’utile (sociale o individuale), variabili di volta in volta a seconda della mera convenienza.

In altre parole, ciò che scaturisce dalle pagine di Lanario è la vera immagine del Principe cristiano, immagine forse idealizzata ma alla quale si deve comunque tendere, in contrapposizione alla scelta utilitaristica suggerita da Machiavelli[3].

Infine, studiare i testi originali del pensiero della Napoli ispanica permette anche di combattere il pregiudizio “antispagnolo”: uno stereotipo storiografico che vorrebbe Napoli (e Milano) “colonie” di Madrid e che individua nel periodo – anzi, nel “malgoverno” – spagnolo il momento più nefasto della storia moderna peninsulare[4].

Una questione terminologica

Tale stereotipo storiografico – che costituisce la sezione relativa all’Italia della propagandistica leyenda negra – è un topos ampiamente diffuso in tutto il mondo accademico e scolastico; negli studenti di lingua italiana esso viene ulteriormente instillato a causa della lettura dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, opera letteraria sublime ma portatrice di un pregiudizio tanto inesatto quanto radicato.

Ecco perché, curando la versione in lingua italiana dell’opera di Francisco Elías de Tejada, Silvio Vitale preferì rendere il titolo originale Nápoles hispánico con Napoli spagnola, anziché con il più corretto Napoli ispanica: egli desiderava appunto distruggere il diffuso pregiudizio anti-spagnolo, contrapponendo anche nel nome il corposo lavoro dello storico andaluso, basato sulla attenta lettura dei testi concretamente prodotti dai pensatori ispano-napoletani, alla teoria delle pubblicazioni che si limitavano a riproporre pedissequamente – con l’eccezione di qualche voce isolata o volutamente flebile[5] – la “vulgata” antispagnola, radicata anche in Italia in quanto uno dei pilastri del pensiero risorgimentale[6] (Tejada avrebbe scritto sprezzantemente: garibaldino).

Secondo Vitale parlare – allora – di Napoli ispanica avrebbe potuto creare confusione in un dibattito storiografico che utilizzava correntemente il termine Spagna (al posto del più corretto Spagne) ed il suo derivato spagnolo, mentre ignorava quasi del tutto il concetto di Hispanidad, spesso confondendolo con quello di grandeza, utilizzato spregiativamente per indicare non il senso di superiorità spirituale, bensì la vuota pompa materiale. E purtroppo, come accennato, anche il massimo romanzo della letteratura italiana ha contribuito pesantemente a confermare questo erroneo pregiudizio.

Quale termine utilizzare, allora? Spagnolo, ispanico, vicereale, asburgico, imperiale?

Forse non è del tutto inutile sottolineare le differenze tra i termini spagnolo e ispanico, erroneamente percepiti come sinonimi nella lingua italiana.

Spagnolo, aggettivo derivante dal sostantivo Spagna, riveste in primo luogo una valenza geografica – tra l’altro escludendo, rispetto all’aggettivo iberico, che pure viene utilizzato come ulteriore sinonimo, il mondo portoghese – mentre ispanico[7] è legato al sostantivo Hispanidad: non un concetto geopolitico, quindi, ma un concetto spirituale. L’Hispanidad è l’insieme delle caratteristiche morali che formano il cavaliere cristiano[8] e che sono state espresse nella lunga lotta della Reconquista (donde la identificazione di Hispanidad e di Christianitas minor).

Un concetto, quello di difesa dei valori cristiani in un mondo caratterizzato dalla citata frattura tra politica e morale, che può essere reso anche grazie al termine imperiale, intendendo questo termine non solo per indicare l’ascesa al supremo soglio di Carlo V (IV come Re di Napoli), ma il concetto di Impero cristiano o Christianitas maior, strenuamente difeso a Lepanto come nelle Fiandre dalla Monarchia cattolica ispanica.

A questa visione ampia viene contrapposta quella limitativa che scaturisce dall’uso, molto frequente nella storiografia italiana, del termine vicereale, per sottolineare la pretesa subordinazione del Regno di Napoli alla Corona di Spagna[9].

In questa impostazione, il Regno viene considerato talvolta quasi una colonia da spremere per finanziare guerre e lusso, talaltra una frontiera, un avamposto abbandonato a se stesso: due visioni lontane dalla verità, cioè dal centro politico e culturale che Napoli fu in quel periodo in cui, anziché esportare uomini di cultura, li importava, ospitando i maggiori intelletti del tempo, da Cervantes a Quevedo. E ciò era possibile soprattutto grazie al ruolo preminente che a Napoli era assicurato dalla politica ispanica.

Va aggiunto che anche una recente riscoperta storiografica “filo-aragonese”, che ripete a mo’ di mantra il distico «Saie quanno fuste, Napole, corona? Quanno regnava Casa d’Aragona»[10], utilizza la memoria, il rimpianto e la nostalgia (nonché l’idealizzazione) del Regno aragonese sintetizzati nella famosa chiusa del Velardiniello alla sua Storia de cient’anni arretro (fine del XVI secolo) per contrapporre una mitizzata Aragona felix alla pretesa “decadenza” immediatamente successiva: un errore speculare a quello della storiografia – spesso di impianto neo-illuminista – che esalta le riforme di Carlo di Borbone in chiave sia anti-asburgica che anti-ferdinandea, quasi che prima e dopo Carlo non via stato che la barbarie istituzionale.

Proprio per smentire tali affermazioni si ripropone la lettura di alcuni dei principali testi che contribuirono alla formazione del pensiero napoletano cinque-seicentesco, per mostrare l’alto livello culturale regnicolo del tempo, restituirgli il suo giusto ruolo nella storia del pensiero filosofico-politico universale e apportare un contributo all’opera di rivisitazione e rivalutazione storica di un periodo in cui – lungi da essere una “colonia” e prima di divenire capitale sì autonoma, ma di un piccolissimo regno – Napoli era una delle principali gemme della Corona ispanica, parte integrante dell’Impero su cui “non tramontava mai il sole”.

Gianandrea de Antonellis


[1] «La Cristianità muore perché nasca l’Europa, quando questo perfetto organismo si infrange dal 1517 al 1648 con cinque fratture successive […] la frattura religiosa del protestantesimo luterano, la frattura etica con Machiavelli, la frattura politica per opera di Bodin, la frattura giuridica con Grozio e Hobbes, e la frattura definitiva del corpo mistico cristiano con i trattati di Westfalia. Dal 1517 al 1648 l’Europa nasce e cresce, e nella misura in cui nasce e cresce l’Europa, la Cristianità si indebolisce e muore». Francisco Elías de Tejada, Europa, tradizione, libertà. Saggi di filosofia della politica, a cura di Giovanni Turco, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005, p. 43.

[2] La dedica ai Medici è successiva alla stesura del testo ed unanimemente considerata strumentale alla reintegra come Segretario della Repubblica.

[3] Delle varie pubblicazioni antimachiavelliche del tempo ricordiamo qui solamente l’opera del gesuita spagnolo Claudio Clemente, Machiavellismus iugulatus, Madrid 1637), «che si rivolgeva contro Machiavelli, Bodin, de la Noue, du Plessis Mornay, con un’accentuazione apologetica in favore della monarchia spagnola tradizionale» (Raimondo Spiazzi, Enciclopedia del pensiero sociale cristiano, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, p. 303).

[4] Si pensi ai semplici titoli dei saggi di Ernesto Pontieri, Nei tempi grigi della storia d’Italia. Saggi storici sul periodo del predominio straniero in Italia (Morano, Napoli 1957 e Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1966) e di Giuseppe Galasso, Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino, Einaudi, 1994.

[5] La principale di esse fu quella di Benedetto Croce, che in Storia del Regno di Napoli scrisse: «la Spagna governava il regno di Napoli come governava se stessa» (Laterza, Bari 1925, p. 137).

[6] Cfr. Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, Guerini, Milano 2005.

[7] Va anche notato come il termine ispanico ampli il periodo storico di riferimento, ricomprendendo anche la “tappa aragonese” a fianco dell’età asburgica o imperiale.

[8] Si veda a tal proposito il saggio di Manuel García Morente, Idea de la Hispanidad (1938), in uscita per i tipi di questa casa editrice con il titolo Il Cavaliere cristiano.

[9] L’onesta affermazione di Croce secondo cui «la Spagna governava il regno di Napoli come governava se stessa» (cfr. nota 4) è stata spesso ignorata o ferocemente criticata (cfr. Gabriele Pepe, Il Mezzogiorno d’Italia sotto gli Spagnoli. La tradizione storiografica, Sansoni, Firenze, 1952).

[10] Velardiniello, Stanze, in Collezione di tutti i poemi in lingua napoletana, vol. xxiv, Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, 1789, p. 8.


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