Francesco Imperato

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Le Piazze e i Capitani delle Ottine

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Nel periodo della Monarchia di antico regime la Città di Napoli (ma il discorso è valido per tutte le Città del Regno) appare dalla descrizione coeve delle sue istituzioni – e a differenza di quanto comunemente si crede – come fortemente caratterizzata da un apporto “dal basso”, da chi effettivamente vi vive e le vive (e viverci da tempo, risiedervi stabilmente ed essere iscritto alle varie “Piazze” assume di conseguenza un significato particolare). Interessante, in tal senso, è la locuzione Civibus et hominibus Populi Civitatis Neapolis, che indica i Patrizi (fortemente legati alla Città) e i semplici residenti (anche momentanei) non iscritti alle Piazze.

Soffermiamoci sulla suddivisione amministrativa.

Le sei (poi ridotte a cinque) Piazze o Sedili nobili in cui è territorialmente divisa la città – Capuana, Montagna (in cui fu incorporato quello di Forcella), Nilo o Nido, Porto e Portanuova – rappresentate dai propri Deputati, sono a loro volta suddivise in 29 Ottine (rioni), affidate ai Capitani; sotto di loro ci sono i “Capodieci”, rappresentanti a loro volta di un insieme (presumibilmente una decina) di “Capi di casa” (a loro volta rappresentanti i capi di famiglia di ogni casa). Insomma, alla base della Città, come in ogni corretto ordinamento, non c’è l’anonimo e spersonalizzato “cittadino”, bensì il concreto capofamiglia, che attraverso un sistema di e­le­zioni successive e indirette (la cosiddetta “democrazia organica”) concorre alla nomina dell’Eletto del Popolo.

Ovvero (partendo dal basso): Capofamiglia, Capo di casa, Capodieci, Capitani di Ottine, Eletto del Popolo.

Leggendo i testi coevi emerge una cultura cittadina in cui la politica è – etimologicamente – una effettiva partecipazione attiva alla vita della polis: una democrazia non nel senso deviato in cui si intende la parola ai nostri giorni, con un suffragio universale che determina l’appiattimento equalizzatore degli elettori (sia attivi che passivi), bensì come reale apporto alle decisioni da prendere (e la nomina dell’Eletto del Popolo è soltanto una di esse). Prendiamo il caso del Capitano di Ottina o Demarco (nome che attesterebbe l’antichità dell’istituzione).

Nonostante il titolo, il suo ruolo non è soltanto militare, bensì anche politico: non si limita ad inquadrare nella propria guardia i Capodieci ed altri militi per difendere la Città da attacchi esterni in caso di guerra o per mantenere l’ordine pubblico in tempo di pace; infatti si interessa di raccogliere dai detti Capodieci indicazioni e suggerimenti sulla situazione del proprio rione, facendoli quindi partecipi della vita amministrativa cittadina. E, a loro volta, i Capodieci si rivolgeranno ai Capocasa e questi ai Capofamiglia al fine di conoscere le esigenze concrete delle varie zone.

A chi vuole approfondire questo argomento suggerisco la lettura di alcuni saggi di uno studioso seicentesco, Francesco Imperato, recentemente riuniti a mia cura e pubblicati dall’editore D’Amico in un testo che è alla base di questa chiacchierata.

Nei suoi scritti Imperato, dopo un excursus storico sull’antichità della carica di Capitano (che addirittura risalirebbe al periodo romano), si concentra sulle sue funzioni, evidenziando come la presenza di almeno la metà più uno dei Capitani sia necessaria affinché le riunioni della Piazza del Popolo siano valide. Scrive infatti: «Da quel tempo [1507] in qua i Capitani vi sono entrati e ciascuno d’essi ha la sua voce; anzi non si può far piazza, né concluder negozio alcuno, se non intervengono almeno 15 d’essi, che sono la maggior parte» perché «ogni Capitano rappresenta la sua Ottina, e tutti giunti l’intero popolo».

Tra le varie incombenze di questi «Ufficiali Regi» (così definiti in quanto nominati dal rappresentante del Re, il Viceré) c’è quella, importantissima, di custodire le chiavi cittadine: «a quei Capitani, che nelle loro Ottine vi sono porte della Città, spetta la loro custodia e delle chiavi, con tenerle serrate in tempo di notte ed aperte e ben guardate il giorno; per ogni porta siano due chiavi, delle quali una si conservasse per la Nobiltà e l’altra per il Popolo».

Infine, pur parlando in questi scritti di questioni limitate (le Piazze, i Capitani, la Casa dell’Annunziata), Imperato non rinuncia a riaffermare alcuni principi di massima, ripresi dai maggiori scrittori politici del suo tempo e dei secoli precedenti, confermando l’esistenza di fatto di una “scuola” napolitana di filosofia politica perfettamente coerente. Ad esempio, ribadisce l’importanza delle consuetudini (che, è bene ricordarlo, hanno forza di legge, perché la legge si basa su di esse e le ufficializza, anziché essere basata sul capriccio del legislatore, come avviene ai nostri giorni), e, tra queste, quella di non imporre nuove tasse né alzare le esistenti e comunque che la politica tributaria debba essere stabilita dalla singola Città e quindi ratificata dal Principe (il che significa che uno dei due soggetti non possa, da solo, imporre un nuovo balzello, né aumentare il vecchio); suggerisce di evitare le “novità”, «cause per ordinario delle corruzioni»; di non cadere nell’errore ugualitarista di considerare “tutti capaci di far tutto”, ma di escludere dal comando «la plebe bassa e minuta, inesperta dei governi».

Un esempio di istituzione privata funzionante: la Casa dell’Annunziata

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Per il lettore nostro contemporaneo è difficile pensare ad un sistema sanitario completamente gestito (e gestito bene) non dal pubblico, ma dai privati. Ma nei tempi passati ciò era la prassi usuale: infatti, l’intera assistenza era nelle mani di istituzioni private, spesso ecclesiastiche, perché lo spirito di carità cristiana era un elemento fondamentale per prestare soccorso ai più bisognosi: negli ospedali non finivano i benestanti, che si facevano curare a casa propria, bensì coloro che non potevano permettersi di rivolgersi a un medico. Tale luogo era spesso la tappa finale dell’esistenza terrena, l’anticamera della morte: non è un caso che in varie città della Penisola italica (tra cui Napoli) questi luoghi prendessero il nome di Ospedale degli Incurabili.

Un eco di questa situazione – l’ospedale come anticamera del cimitero – si ritrova nel romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1883) di Carlo Collodi, in cui sia il Grillo parlante che la Fata turchina ammoniscono il protagonista a seguire sulla retta via, perché i fannulloni «finiscono sempre allo spedale o in prigione» (cap. IV) o «finiscono quasi sempre o in carcere o all’ospedale» (cap. XXV).

L’assistenza privata ai più bisognosi era presente, ovviamente, anche nella Napoli imperiale, volgarmente (ed erroneamente) detta “spagnola”, in cui i vari Monti si facevano carico di sostenere i bisognosi. Dal Monte per i poveri vergognosi (cioè i nobili decaduti, che si vergognavano, appunto, di stendere la mano) al Monte Manso (nato per assicurare l’educazione alla progenie di aristocratici che non si potevano permettere un istitutore in casa), dal Pio Monte di Misericordia al più tardo Real Monte di San Giuseppe dell’Opera del Vestire i Nudi (che si caratterizzavano per le opere di misericordia corporale e spirituale), per non parlare di Ordini cavallereschi come gli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme (gli odierni Cavalieri di Malta) e monastici come l’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio (i Fatebenefratelli) e i Chierici regolari Ministri degli Infermi (i Camilliani).

La Carità (nell’alto senso di virtù teologale, non in quello comune di elemosina) veniva dunque compiuta attraverso istituzioni private e la Santissima Casa dell’Annunziata era una di queste; anzi, fu la principale per estensione e numero di persone impiegate ed assistite: solo per gli esposti si parla di 1.500 neonati abbandonati (soprattutto femmine) e di circa 2.000 nutrici pagate per allattarli a turno (sia in loco che a casa propria). Per le fanciulle esposte, oltre alla sopravvivenza in seguito all’abbandono da neonate, era prevista l’educazione ad «esercizi e magisteri femminili», con i quali potessero successivamente mantenersi (e si assicurava loro anche una dote); mentre i maschi, se mostravano vocazione, erano preferibilmente indirizzati al sacerdozio.

L’ospedale vero e proprio – vale a dire il sanatorio – era diviso in cinque sezioni: oltre a quello per le “esposte” (cioè per le orfane sane), vi era un reparto per i “febbricitanti” (cioè i malati generici), uno per i “feriti e impiagati di piaghe incurabili” (moribondi che si seguivano soprattutto spiritualmente), oltre all’albergo di Pozzuoli (dove le malattie polmonari venivano curate con gli effluvi della Solfatara) e a quella della Stella destinato ai “febbricitanti” sanati che si dovevano rimettere.

La seconda sezione, quella dei febbricitanti, assisteva una media di 500 malati, affidati a quattro medici “fisici” (una sorta di primari) e a una schiera di medici “pratici” (chirurghi, cavadenti, conciaossa, etc.) e di infermieri. Notevole anche il numero di religiosi per il conforto delle anime (in particolare nella sezione degli incura­bili).

Ma i compiti della Casa dell’Annunziata non finivano qui: l’ente, infatti, si occupava anche di liberare dalla schiavitù i prigionieri dei pirati musulmani ed aveva un proprio Monte dei pegni: insomma, era una istituzione complessa, che si reggeva grazie alle donazioni in danaro e alle numerose rendite feudali: ecco perché erano necessari cinque governatori e almeno una ventina di “ufficiali” (cioè funzionari), tra archivista, numerosi “razionali” (contabili) di vari settori (debitori, creditori, eredità, etc.), addetti alle nutrici, guardarobieri, dispensiere, cantiniere e otto portieri, sotto i quali lavorava un numero imprecisato di dipendenti. È normale che una struttura in cui erano albergate oltre duemila persone (tra orfani e malati) necessitasse per mantenerle di una organizzazione complessa.

Il tutto senza “aiuti pubblici” che non fossero quelli di veder riconosciuti dal Re i diritti acquisiti nel corso dei secoli (sostanzialmente, si tratta di agevolazioni fiscali e burocratiche).

Da dove ricavava i mezzi per sostentare due o tre migliaia di malati e una schiera di dipendenti tra medici, chirurghi, assistenti (cioè infermieri), uomini di fatica, cuochi, guardiani, nutrici, sacerdoti, musici, ministri, «e a mantenere la spezieria, nelle cere, in ornamenti della chiesa, nelle fabbriche, nelle liti, negli alimenti che si danno alle esposite che stanno fuori di Casa» etc.? Dai contributi volontari di tutti coloro che lasciavano all’istituzione elemosine in danaro o in altri beni, in particolare cospicue eredità con richieste di preghiere e Messe per l’anima del defunto benefattore.

La Casa dell’Annunziata gestiva inoltre in regime feudale numerosi territori in varie province del Regno (Terra di Lavoro, Principato Ultra, Principato Citra, Capitanata, Calabria e Basilicata), con tanto di vassalli e relativi obblighi di amministrazione: nel 1423 la Regina Giovanna concesse anche il privilegio di poter succedere nei feudi lasciati in eredità «senza impetrare assenso», cioè senza che questi tornassero alla Corona e fossero di nuovo concessi. Un patrimonio enorme che, correttamente amministrato, permetteva di sostentare gli ospedali napoletani, sostenere «maritaggi, monacaggi, elemosine, scarcerazioni», mantenere gli amministratori e gli amministrati, non limitandosi alla beneficenza saltuaria, ma soprattutto alla assistenza continuativa.

Nelle pagine del saggio di Francesco Imperato recentemente ripubblicato a mia cura dall’editore D’Amico, da cui abbiamo tratto molte di queste informazioni, utili a rivedere (e ribaltare) il giudizio troppe volte ripetuto dalla “leggenda nera” sul «nefasto periodo della dominazione spagnola», si può trarre un ottimo esempio da seguire e da applicare nuovamente ai nostri giorni.

Gianandrea de Antonellis


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