
«Teorico sostenitore della nobiltà fu anche Giuseppe Campanile, membro di due Accademie […], moralista di minor grazia e cronista dei fatti con prospettive aristocratiche, anche se, come Capecelatro o Piacente, fu abbastanza indipendente da attribuire agli abusi dei ceti più elevati le origini sociali della rivolta. […] È proprio nel corso dell’insurrezione che Campanile si dimostrò fedele al suo re, come testimonia il Diario circa la sollevatione della plebe di Napoli ne gl’anni 1647 e 1648, manoscritto conservato nella Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria con note aggiuntive di Innocenzo Fuidoro. Nel suo Diario racconta che distribuiva alla frangia ribelle i manifesti di don Giovanni d’Austria e che cospirava con alcuni “vassalli fedeli al Re, dei quali io era il minimo” nelle celle del priore del convento di San Giovanni a Carbonara, mettendo a repentaglio la propria incolumità durante la prigionia, da cui fu liberato il 1° febbraio 1648 in virtù della sua condizione di sacerdote».
Francisco Elías de Tejada
Partenope rivisitata
Può sembrare esagerato voler attribuire al Diario di Giuseppe Campanile – o meglio del duo Campanile-Fuidoro – un valore eccessivo nel campo degli studi storici sul periodo 1647-1648 (se non sull’intero Seicento napoletano). Eppure è indubbio che – per la sua insolita prospettiva – sia importante riproporre questa versione dei fatti, finora inedita e nota a pochi specialisti del settore, che peraltro non la hanno mai particolarmente considerata[1], mentre fu notata da Francisco Elías de Tejada, che ebbe occasione di leggerla attentamente e non di sfuggita, per poi parlarne nel suo imprescindibile saggio Napoli spagnola[2] (e il fatto che la sua lettura sia stata attenta è dimostrato anche dal non secondario accenno alla errata impaginazione del manoscritto[3]).
Genealogisti, cronisti o storici?
Giuseppe Campanile e Innocenzo Fuidoro (ovvero Vincenzo D’Onofrio) hanno ricevuto un giudizio diverso (per non dire opposto) dalla critica italiana, che comunque ha messo in evidenza la matrice genealogista e cronachistica delle loro opere (peraltro, poiché essi parlarono di Masaniello e di Annese, cioè di avvenimenti a loro contemporanei, non sarebbe potuto essere diverso).
Le notizie biografiche su Giuseppe Campanile (1615 ca.-1674), figlio del genealogista Filiberto[4], sono scarse e prevalentemente derivate dalla Biblioteca napoletana del contemporaneo Niccolò Toppi[5].
Giuseppe Campanile nacque a Diano (odierna Teggiano), in Principato Citra, indicativamente nel secondo decennio del Seicento[6]. Visse a Napoli e fu ascritto all’Accademia degli Oziosi (“accademico Umorista e Ozioso” si definisce egli stesso nei suoi Dialoghi morali). Gaspare De Caro, nella voce a lui dedicata sul Dizionario Biografico degli Italiani, stronca decisamente la sua produzione letteraria «non immeritamente dimenticata»: le Lettere capricciose sarebbero una «raccolta futile e letterariamente mediocre di “casi curiosi” e di arguzie deprimenti», un «mediocre omaggio reso dal Campanile alle convenzioni della novellistica barocca, con gli artifici narrativi, il periodare pomposo e la vacua ostentazione moralistica, tipici di questa letteratura di intrattenimento»; le Prose varie denoterebbero una «esemplare mancanza di immaginazione», caratterizzata dai «termini più scontati del tacitismo» e punteggiata da «quesiti di prevedibilissima soluzione» e dalla «ricerca cortigiana del buon padrone per la via maestra dell’adulazione, ed in quella sola direzione che i tempi ormai consentono al letterato servile»; le Poesie liriche (1666 e 1674) sono un «vacuo omaggio alla moda concettistica», mentre nei Dialoghi morali trionfa «l’adulazione plateale e la beffa ingiuriosa» risultato della «squallida imitazione barocca del Campanile». Il giudizio negativo non cambia quando si passa dall’artista allo storiografo:
Sin dal 1666 il Campanile, annunziando di volersi fare editore degli Annali dello pseudo Matteo Spinelli di Giovinazzo – una presunta cronaca ducentesca, circolante manoscritta da decenni e più tardi riconosciuta come un falso del secolo XVI – aveva manifestato l’intenzione di aggiungervi un’appendice di notizie genealogiche sulle famiglie della nobiltà napoletana [le Notizie di nobiltà (1672)]. Abbandonò il progetto di pubblicazione della pseudo-cronaca spinelliana, non l’altro, che anzi gli andò crescendo sino a prevedere la pubblicazione di due volumi. In realtà riuscì a pubblicarne uno soltanto, e non dipese da lui se l’opera rimase incompleta.[7]
Niccolò Toppi spiega in che consiste quel «non dipese da lui», sostenendo che le sue Notizie di Nobiltà
furon cagione della sua morte successagli mentr’era carcerato in Vicaria a’ 24 di Marzo 1674 per haver publicate varie notizie contra alcune antiche e nobilissime Famiglie, con indiscreta e critica penna, molto aliene e contrarie a tutte quelle da me ritrovate ne’ Regij e fedeli Archivi, ed appresso approbati Autori, come dirò altrove largamente.[8]
L’opera, che si proponeva come una vera mappa della nobiltà del Regno su basi rigorosamente erudite, «risultò una grossolana falsificazione, del tutto conforme ai propositi adulatori e denigratori della precedente produzione letteraria del Campanile»[9], come avrebbe riconosciuto lo stesso Toppi. Il risultato fu la protesta di «alcune e nobilissime famiglie che chiesero ed ottennero contro di lui l’intervento delle autorità»[10]. Di conseguenza, «il Campanile fu imprigionato nelle carceri della Vicaria e qui morì – a quanto pare prima che fosse celebrato il processo – il 24 marzo del 1674»[11].
* * *
Ben diversa la vicenda di Vincenzo D’Onofrio, alias, anagrammaticamente, Innocenzo Fuidoro (1618-1692), nato a Napoli «da un’antica famiglia originaria di Procida di condizione mediana e civile»[12].
L’esistenza non dovette serbargli sorprese, acuti disagi o particolari oneri di cui farsi carico. Rivestì, infatti, gli ordini religiosi ed ebbe cura di conseguire la laurea in legge, senza aver la voglia e quindi il bisogno di esercitare attivamente l’avvocatura.
Il dottorato in giurisprudenza lo segnala, comunque, nel contesto della vita sociale e civile napoletana di metà secolo, se non tra le fila, almeno preda di quei fermenti culturali di rinnovamento e di impegno sul fronte della vita pubblica che caratterizzavano le migliori personalità di giureconsulti dell’epoca attive nella capitale, a stretto contatto con le autorità spagnole.
Ma l’attività sulla quale mostrava riporre le migliori forze fisiche ed intellettuali era senz’altro la compilazione dei Giornali, raccolta, giorno per giorno, di fatti, notizie e voci non solo, anche se in maggior misura, riferite alla città di Napoli.
Aveva le sue precise fonti d’informazione nella parte meno gretta e retrograda della nobiltà, nell’alto clero dove, fra gli altri, fu intimo del cardinale Innico Caracciolo, in personalità a diretto contatto con Roma, in funzionari dell’amministrazione pubblica.[13]
Gli scritti di D’Onofrio permettono quindi di ripercorrere le vicende di un ampio periodo della storia napoletana: i suoi Giornali di Napoli coprono il periodo 1º febbraio 1660 – 31 dicembre 1680. Ad essi si aggiungono altri due manoscritti riferiti al 1647 ed al lustro successivo: i Successi istorici della sollevazione di Napoli delli 7 di luglio 1647 sino ai 6 aprile 1648, in cui si narra della sommossa partenopea guidata da Masaniello e della successiva repubblica filo-francese (1648), e il Governo del conte d’Oñatte, che fu Viceré dal 2 marzo 1648 al 10 novembre 1653.
Curiosamente, mentre il tanto esecrato (dalla critica) Campanile riuscì a pubblicare quasi tutti i propri lavori in vita, tutte e tre le opere di D’Onofrio (cui è da aggiungersi la revisione del presente diario) sono state pubblicate solo nel Novecento[14].
Tali opere per stile, taglio documentario, interventi dell’autore formano senz’altro un organismo compatto ed unitario. Innanzitutto il D’Onofrio vuole differenziarsi dal diarista classico, in quanto non tralascia di indagare il senso degli avvenimenti attraverso i loro nessi causali. L’amore per “la verità” è stimolo e causa prima della fatica di prender nota delle vicende metropolitane «per essempio e profitto dei posteri per buon reggere se medesimi». Le notizie raccolte sono esplicitamente considerate dall’autore alla stregua di nudi perciò genuini materiali, che il lettore può godere ma anche emendare a seconda delle esigenze e delle circostanze.[15]
Nel 1681 il D’Onofrio venne colpito da una grave infermità, che gli paralizzò le gambe. Proseguì comunque fino alla fine la stesura dei suoi Giornali:
Continuava a scrivere i Diari [sic], divorava volumi di altri autori, copiava operette manoscritte e non, manteneva, seppure con minore intensità, i contatti con le fonti abituali. Venne fermato solo dalla morte, che lo colse a Napoli il 12 gennaio 1692.[16]
Insomma, Campanile e D’Onofrio furono, almeno per il periodo della rivolta popolare e della ossimorica Real Repubblica, due semplici cronachisti, consci di compiere un’opera diaristica, come ammette esplicitamente lo stesso D’Onofrio, invidiando la situazione veneziana, dove il governo stipendiava annalisti che registravano gli avvenimenti, senza obbligare gli scrittori a ricorrere alla produzione in proprio e quindi alla ricerca di sponsores (che vanno necessariamente adulati)[17]:
Poiché devi avvertire che sicome Napoli e suo Regno ha tenuto dalla sua nascita penuria di scrittori che continuamente avessero con ammirabil ordine scritto li successi, non avrebbono i diligenti indagatori delle cose antiche con tante vigilie molti secoli stentato a raccogliere e far publicare le materie cavate dal profondo delle tenebre: il che non è avvenuto nell’altri Dominii e Stati dell’Italia, e fuori; che perciò laudabile istituto è della Republica Veneziana, splendor d’Italia, che con serie continuata fanno scrivere anno per anno i successi che avvengono nel governo della loro Republica, il che è proibito a’ nostri tempi scrivere senza adulazione. Credo parlare con persone che intendono il vero.[18]
Quindi ci troviamo di fronte al lavoro di due umili diaristi, che risultano però fondamentali per fornire agli storici gli strumenti necessari a dare una diversa lettura del (poco conosciuto – o piuttosto travisato) periodo in questione.
Un lavoro a quattro mani per un punto di vista ispano-napoletano
Il manoscritto Ms XXVIII C 5 della biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, qui di seguito trascritto, non fa mistero che l’opera di Campanile sia stata abbondantemente rivista da D’Onofrio/Fuidoro: le aggiunte di quest’ultimo, di volta in volta segnalate[19], vanno da poche parole di commento o poche righe di notizie biografiche ad intere pagine di nuovi elementi, mantenendo uno stile comunque abbastanza omogeneo.
Innanzitutto colpisce la prevalenza delle aggiunte rispetto all’originale: sulle poco più di 90.000 parole dell’intero manoscritto, quelle attribuite a Campanile sono solo 30.000: la metà, quindi, rispetto a Fuidoro. Anche considerando alcuni casi in cui manca l’indicazione della fine dell’inserimento e compreso l’ultimo inserto, che parte da martedì 24 marzo e giunge fino alla fine del manoscritto senza indicazioni di cesura (per un totale di 10.000 parole circa), sembra comunque palese che il testo originale fosse molto meno lungo di quello definito dal curatore.
Fuidoro si sente superiore all’autore dell’opera che sta curando, come si evince da alcuni suoi incisi: «Non so come il Campanile passi in silenzio a questo tempo una cosa che ognuno quasi vidde»[20] oppure «Nota, Lettore, che trascuraggine del Campanile, che passa in silenzio una cosa tanto essenziale»[21], sono solo alcuni dei commenti che riserva all’estensore del Diario originale. Ciononostante, come accennato, il risultato è una scrittura abbastanza omogenea, sia dal punto di vista stilistico che contenutistico.
La lettura del Diario permette infatti di guardare agli eventi del 1647-1648 – cioè non solo e non tanto ai pochi giorni della rivolta di Masaniello, quanto ai terribili mesi di sostanziale “anarchia repubblicana” che seguirono – con un occhio diverso da quello talvolta riservatogli di evento pre-rivoluzionario (Masaniello) o pre-unitario o pre-indipendentista (la Repubblica).
Pur essendo possibile separare lo scritto dell’uno dai contributi dell’altro, grazie alla presenza di un particolare segno distintivo, bisogna riconoscere che essi sostanzialmente convergono nel giudizio da dare agli eventi, ritenendo del tutto negativa la svolta filo-francese della Città di Napoli, dovuta essenzialmente all’ambizione di pochi che vedevano nel radicale cambio di regime il mezzo per una rapida ascesa sociale.
Sia Campanile che D’Onofrio sono infatti membri del Popolo[22], ammirano le istituzioni del Regno e propendono per un governo che rispetti gli ordini sociali ed assicuri la pace esterna e la tranquillità interna. Non apprezzano gli sconvolgimenti sociali, i rapidi passaggi di “ordine” da parte degli homines novi, la corruzione intrinsecamente legata al veloce arricchimento.
Ciò è comprensibile, pensando alla vita di Campanile, svoltasi all’interno dell’ambiente dell’alta aristocrazia, cui non apparteneva ma che era l’oggetto del suo studio (come quello di suo padre).
Un esempio di tale atteggiamento si ha nell’apprezzare che la carica di Grassiere o Prefetto dell’Annona[23] sia affidata a un “nobile di spada e cappa” e non a un “togato”, vale a dire a un rappresentante del Popolo (cioè delle “persone civili”):
Mutarono anche il Grassiere, non volendo più il Regente Zufia, con escludere per l’avvenire ogni togato per questo officio, acclamando a tal capo un Nobile di Spada e Cappa e costituirono Don Francesco Filomarino, Principe della Rocca d’Aspro, d’ottima conscienza e prudente.[24]
In altri casi è esplicito il disprezzo per il comportamento della plebe (da non confondersi, ovviamente, con il Popolo, composto da lavoratori – commercianti ed artigiani – regolarmente rappresentati nelle istituzioni, in primis nell’apposito Sedile), che nei dieci giorni dell’anarchia masaniellana usurpa una serie di prerogative che palesemente non le spettano. Si va dalle numerosissime nomine di incompetenti[25] alle prerogative indebite assunte dal capopopolo[26], allo sfarzo eccessivo ostentato dal “villano risalito” per eccellenza:
Masaniello s’imbarcò et andò a Posillipo, con le gondole regie portato; le sue camerata furono suo fratello, il suo segretario, del quale diremo appresso, e pochi altri; vi andarono anche le donne di Masaniello con le loro plebee Dame del Lavinaro, vestite di ricchissimi broccati, ma sempre erano ornate di quella maestà che la feccia della plebe si usurpa con la tirannia in simili casi, come cosa propria della viltà della nascita; vi andò ancor la musica di Palazzo e molte filuche di gente popolari de’ sollevati, per guardia e corteggio.[27]
Essere filo-aristocratici, ammirare l’ordine nobiliare, però, non significa necessariamente essere filo-ispanici. Invece Campanile parteggia decisamente per il legittimo Re di Napoli, che cinge anche le altre Corone delle Spagne.
E non è il solo: nonostante i tradimenti e le difficoltà, in molti gentiluomini (nobili e civili) rimane un forte senso dell’onore, che impedisce loro di accettare cariche se non in vista di una riappacificazione, per non apparire ribelli al Re (a differenza di tanti arrampicatori, che invece fomentano il caos e la Repubblica al fine di una propria ascesa sociale – e duole ritrovare tra questi ultimi non pochi religiosi[28]). È il caso, ad esempio, dei giudici che, avuta «la licenza da Don Giovanni d’Austria che accettassero la carica di Consiglieri del Popolo nell’amministrare giustizia come confidenti della Corona di Spagna», si rivolgono poi a un padre teatino, prima di pronunciare una sentenza capitale (in nome della “Area Repubblica”),
il quale [sacerdote] convinse i legisti con una raggione che quelli tre prigioni potevano giustamente esser condennati a morte in foro conscientiae, come ribelli del Re e non del Ghisa, ancorché essi dovessero decretare la ribellione patrata contra il Ghisa, Duce della Aerea Republica, come fu poi eseguito.[29]
Parlando di questioni di coscienza, è da notare il rispetto (forse motivato da sole considerazioni politiche, ma comunque presente) della religiosità napoletana da parte dei filo-francesi, che non osano attaccare direttamente il Re delle Spagne, abbassando i suoi ritratti per innalzare quelli dei Sovrani d’Oltralpe, ma li sostituiscono con quelli di San Gennaro e del Crocifisso:
furono levati da tutte le strade dove stavano esposti li ritratti sotto li baldacchini dell’Imperator Carlo V e del Re Filippo Quarto, invece de’ quali vi furono posti S. Gennaro glorioso o della Santissima imagine del Crocefisso, levandosi dal cuore de’ sollevati, ma non da gl’altri che stavano disarmati et oppressi, come furono le Gente Civile, la Casa d’Austria.[30]
Coerentemente a tale rispetto, impongono la presenza di una formula religiosa all’inizio della redazione degli atti:
che li notari, mastri d’atti, scrivani et altri, sotto pena di privazione d’offici et invalidità di scritture, dopo invocato il Signore in qualsivoglia scrittura publica, dovessero invocare il nome della Serenissima Republica Napoletana[31]
Grave scandalo suscitano invece nel diarista i sacerdoti apertamente apostati, come Lonardo Landi, il quale divenne Maestro di Campo e,
mutato il calice in cannone e la veste sacerdotale in armi militari e corazza, apostatando dal sacrosanto sacerdozio, facea servirsi con esempio calvinistico o luterano dalle spose di Cristo in tutti li suoi bisogni con farsi da quelle servire a tavola, prima che risolvessero uscire dalli loro sacri nidi di S. Sebastiano.[32]
oppure quei religiosi che, con discorsi e con scritti, esaltavano Il Duca di Guisa
come Difensore della Libertà (come il Principe d’Orange in Fiandra), Duce della Serenissima Real Republica di Napoli & Generalissimo delle sue Armi: questi erano li titoli che esponeva nelli bandi. Uscirono alle stampe molte composizioni in lode del Ghisa, fatti da’ frati, preti e da sfaccendate persone.[33]
Enrico di Guisa è descritto più volte come un illuso[34] o come desideroso soprattutto di arricchire se stesso[35]. Così pure al suo avversario, Andrea Annese, è riservato un duro trattamento: disprezzato come uomo, «perché un cuor vile non può suggerire alla mente d’un plebeo azioni gloriose»[36], viene giudicato un arrogante, un violento[37] ed un ipocrita che si comporta come un attore, mettendo in scena il proprio dolore per commuovere il popolo napoletano:
onde [l’Annese] voleva rinunciare il carico, publicamente facendosi veder piangere per le finestre che corrispondevano alla parte del Mercato dal Torrione, onde molti gli diedero animo che non dubitasse, atteso volevano lui per Capo.[38]
Palese appare l’intento francese di fomentare il caos per creare problemi alle Spagne e non per aiutare il Popolo napoletano – ovviamente! – ma nemmeno per tentare una effettiva conquista del Regno, evidentemente consci dell’attaccamento alla Corona ispanica delle popolazioni locali:
Né il Re di Francia fidò mai l’Armata al Ghisa, che era suo ribelle, ben vero ad istanza del Fontané la mandò per invigorire l’ostinazione popolare, dalla quale cavava profitto, poiché se non ci fosse stata questa guerra civile, Napoli avria frequentati li poderosissimi aggiuti di gente e di danari che con infiniti millioni d’oro in tanti anni di guerra tra le due Corone avea sovvenuto al suo Austriaco Re, conforme è verissimo, poiché da tanti anni ribellata la Catalogna e Portogallo, quali soccorsi mandò al suo Re questo Regno? e quali persone Comandanti Napoletani che diedero molte vittorie con spargimento di sangue alla Maestà del Re di Spagna; le penne inimiche ancor esse lo dicono nelle istorie.[39]
Analisi che il mese dopo viene puntualmente confermata da un testimone d’eccezione, il padre del Cardinal Mazzarino (allora Primo Ministro e Reggente di Francia), Pietro Mazzarino:
L’armata francese […] scorreva nel golfo craterico per accalorare i sollevati, dar gusto al Ghisa e senza altro frutto che d’imbarazzare l’interesse de’ Spagnoli; mentre da Pietro Mazzarini in Roma […] accerto che l’armata per questo fine solamente fu inviata da Francia et che il Richielieu non aveva ordine di aderire alli gusti del Ghisa né del Popolo, ma solamente di spalleggiare le turbolenze.[40]
Ecco perché, quando finalmente aprì gli occhi, il Popolo era favorevole a «pattizzar di nuovo con li Spagnoli, mentre erano stati gabbati da’ Francesi, solito di tal nazione»[41].
Tra l’inizio della rivolta ed il ritorno dell’Ordine passano nove mesi in cui la città soffre una terribile guerra civile e, nella parte in mano ai Popolari, domina un senso di anarchia e di terrore che per certi versi anticipa quello “rosso” del Novecento: questo trapela innanzitutto dalle violenze indiscriminate (già presenti nei primi giorni della insurrezione popolare), ma anche – nel periodo “repubblicano” – dalle esecuzioni comminate per tradimento a chi veniva sconfitto, secondo lo stile che caratterizzerà la politica staliniana:
Il Popolo carcerò il Carola, come traditore (così facevano quando perdevano), lo portorno carcerato e pigliatone informazione, fu il mercordì seguente 13 detto condannato a morte, al quale pareva che l’Annese voleva procurargli la vita, avendo fatto differire la giustizia.[42]
Se il periodo della “dittatura del proletariato” (quello di Masaniello) si esaurisce nel giro di soli – pur cruenti – pochi giorni (dal 7 al 16 luglio), colpisce il fatto che il periodo “anarco-repubblicano” sia invece durato ben nove mesi. Il successo iniziale del Popolo è attribuito in gran parte alle condizioni di disagio in cui versava la parte filo-ispanica, piuttosto che a una scelta di campo di tipo politico:
per la quantità della gente che passava dalla parte del Popolo si riconosceva che la miseria e la penuria era in supremo grado.[43]
Altro elemento che spiega il notevole tempo impiegato per debellare la rivolta è la politica seguita dal Viceré, che tratta – come ovvio – Napoli quale città momentaneamente e in parte ribelle e non come terra di conquista:
Ordinò Sua Altezza che li Spagnoli stessero su le difese e non per uccidere i Popolari.[44]
Così si spiega che il Tercio proveniente da Pozzuoli si lasci fermare dalla milizia partenopea e che Don Giovanni Giuseppe d’Austria differisca di vari mesi lo sbarco dei suoi soldati e limiti i cannoneggiamenti. E così si spiega anche la diatriba sul termine conquista che occupa le pagine finali (cfr. Diario, 72v e 73v), volta a dimostrare che la Napoli ispanica, la Napoli fedele (se non proprio fedelissima) al suo Re si riconquistò da sé: debellò cioè la fazione filo-francese ed aperse le porte ai militari del Tercio, che poterono entrare in città senza colpo ferire.
Questione sintetizzata nel battibecco tra Andrea d’Avalos e il Conte di Lemos[45], figlio dell’ex Viceré di Napoli:
Poiché ritrovandosi un giorno Don Andrea d’Avalos, Prince di Montesarchio in anticamera di Sua Maestà (dopo li travagli della sua carcerazione in Spagna nel governo del Conte d’Ognatte col Priore della Roccella), discorrendo disse l’Andrada, gonfio di valore in parole: «Entonças que ganamos Nápoles?», alle quali parole il Montesarchio, sentendosi così velenosamente mordere, rispose: «Quando fue perdida Nápoles, Señor Andrada? Vos menteys y yo lo mantenerey con esta spada» e chiamandolo a duello s’avviò a basso fuori del Real palazzo di Madrid: fu riferito a Sua Maestà l’ardire et il poco rispetto del‹l› Montesarchio dalli corteggiani del Re, il quale non potendo degenerare dall’innata pietà d’un Re amator del giusto, approvò l’azione del d’Avalos per degna d’un Signor valoroso et amatore della riputazione della sua Patria, fedele al suo Re, come sempre è stata e sarà Napoli e suo Regno, non potendo pregiudicare la feccia plebea sollevatasi per tante oppressioni e tirannie alla fedeltà di tutto il vassallaggio scielto et affezionato alle leggi del debito di natura verso il Re.[46]
Ribadendo ulteriormente la differenza tra Nobili e Popolo civile da un lato e plebe dall’altro[47] – anche se la colpa della rivolta repubblicana va attribuita a quella parte popolare (non plebea, ma che guidava la plebe) desiderosa di compiere una arrampicata sociale[48].
Le aggiunte di Fuidoro
Le aggiunte di Fuidoro, come accennato, non stravolgono l’impianto filo-aristocratico di Campanile: Vincenzo D’Onofrio, naturalmente austero, forse ancor più in quanto religioso, è fortemente critico nei confronti dello sperpero – che si ritrova i tutti i livelli, non solo nell’aristocrazia – e ritiene anch’egli negativa l’eccessiva mobilità sociale, che vede da un lato gli homines novi ascendere senza avere la capacità di gestire le cariche pubbliche, dall’altro la «pratica, deleteria per la società, dei matrimoni misti, tra rampolli di nobili spiantati e figli di popolani con tanto di borsa e di dote»[49].
Forse la critica più feroce (ed attualissima) nei confronti del movimento insurrezional-rivoluzionario riguarda il senso di bieca sete di vendetta dovuta all’invidia e non a presunti ideali di “giustizia” da parte di invidiosi, più che di indignati, con gravi travagli causati
dalle persone sollevate che erano la feccia della città che non potevano sopportare di vedere in vita chi con suoi onesti sudori procurato avea di giustamente mantenersi nel posto che avea ereditato da’ suoi maggiori con la civiltà e nobili costumi.[50]
La simpatia – e sintonia – nei confronti degli Spagnoli non impedisce comunque una critica verso l’atteggiamento sprezzante di alcuni rappresentanti iberici: così viene condannato come «imprudentissimo» l’aperto gesto di sbadigliare (obbiettivamente di scarsa gravità) ostentato da un cortigiano:
Ecco che in sudetta strada di Piazza larga un imprudentissimo corteggiano spagnolo, servitore del Viceré, che era nella carozza immediatamente seconda a quella del suo padrone, fece a vista di tutta quella strada una aperta di bocca e fece atto con la mano tre o quattro volte volendo dispreggiare un Popolo armato che acclamasse forsi il nome regio coll’essersi ingrossato il pane quaranta once per palata al prezzo di quattro grana, et accorgendosi molti di quell’atto mentre le carozze toccavano di buon passo, cominciorno uno all’altro ad avvertirsi di vendicarsene, movendosi fra gl’altri un giovane che era pratico d’un chirurgo che abitava nella medesima strada con un archibugetto in mano s’incaminò con alcuni altri, dicendo di voler dare da mangiare una palla infuocata a quella bocca che avea fatto quell’atto e troncarli la mano.[51]
Indubbiamente si rimane colpiti dallo spazio concesso all’incontro tra il Duca d’Andria e il Duca di Guisa, che si trattano reciprocamente con il massimo rispetto nonostante combattano su fronti opposti (e il Napolitano rimane “vincitore” del Francese in quanto a cortesia):
Accostandosi Enrico di Lorena verso la porta del convento, uscì come un sole a riceverlo l’Andria, che era nel fine degli anni, alto, pieno e bellissimo e con la testa scoverta accostossi alla man sinistra per tener la staffa del Ghisa, salutandolo d’Altezza; e quello, rendendogli l’Eccellenza, contesero in cortesia e convenienza e finalmente vinse Andria; entrorno dentro del chiostro in una di quelle stanze et restorno a cavallo li sei armati: raggionarono più ore giunti e verso ora di compieta uscirono e con ogni atto signorile entrarono in contesa del montare a cavallo, pigliando il Duca d’Andria di nuovo la staffa e contro voglia per quell’atto cavalcò il Lorena e partissi a’ preghiere del Duca, che era a piedi, et ambedue sempre su l’atti d’osservanza senza berretta in testa si licenziarono.[52]
Tali «minuzie», come le definisce poco dopo, servono a rendere più completo il quadro della situazione che i posteri utilizzeranno per dare – a mente fredda (quando le circostanze saranno «terminate e digerite») – un giudizio “storico”:
Dalla bocca di questo mi riferì l’abboccamento d’Andria col Ghisa et un’altra curiosità che sono per scrivere per mio genio, acciò non sia persa la memoria di queste notizie, benché siano minuzie, apporteranno alcuna soddisfazione alla posterità, la quale potrà credere che parte delle cose scritte l’ho visto; ma molte cose che si vedono per narrarle e scriverle bene non si possono se non quando le circostanze che vi sono siano terminate et digerite; so che io parlo con persone che sanno comprendere; però mi sono con ogni industria ingegnato di dire il vero e senza alcuna passione.[53]
Simili «minuzie» sono state però scelte per l’importanza che l’autore annetteva loro: la cortesia è infatti fondamentale nel mondo ispanico (ma non solo) e l’aristocrazia coltiva come propria caratteristica un modo particolare di comportarsi, una specifica educazione che non è pura forma, ma espressione di un modo d’essere interiore che passa attraverso il modo di comportarsi esteriormente, in cui la “buona educazione” va dallo stare correttamente a tavola al rispetto assoluto degli impegni presi.
È dunque conseguente – anche se un po’ troppo ottimistico – il commento del Viceré, quando dagli spalti di Castel Nuovo assiste allo scempio fatto dalla plebe del corpo di Giuseppe Carafa: «Ya havemos ganado el Reyno a Su Magestad»[54]. Nella visione di Rodrigo Ponce de León, infatti, l’unico pericolo per la stabilità del Regno poteva giungere dall’adesione alla rivolta plebea da parte della Nobiltà, che avrebbe trascinato con sé il Popolo civile. La violenza della feccia popolare nei confronti degli aristocratici, però, sventava tale pericolo, spingendo la Nobiltà al proprio dovere di essere fedeli al Re, innanzitutto come punto d’onore.
[I] Nobili, che per vendetta e debito di fedeltà doveano aderire al servizio del Re, come fecero col Popolo civile; ma perciò mossa così la Nobiltà, come le persone civili e gentiluomini dalla sola gloria d’esser fedeli al suo Re, sì come al suo tempo lo dimostrarono con gli effetti, attesero con ogni finezza d’amore a far opre degne del proprio essere e del proprio lor debito.[55]
L’onore è infatti l’elemento caratterizzante l’Ordine aristocratico anche secondo studiosi dei secoli successivi, in primis il Principe di Canosa, secondo il quale la Monarchia era caratterizzata dall’onore, mentre la Repubblica dalla virtù[56].
Il che non impedisce a Fuidoro di – anzi, lo spinge a – criticare la stessa nobiltà ed il governo vicereale quando vengono meno alle loro prerogative: così di Andrea d’Avalos, Principe di Montesarchio, che ha appena esaltato per il proprio amor patrio, dice apertamente che si arricchì «rubbando per mare e per terra inimici et amici»[57] e scarica contro la spia Cesare di Gaeta una buona dose di ironia, sostenendo che servì l’Oñate piuttosto «combattendo con la sua gran pancia quei petti di grasse vitelle e polli arrosti»[58], anziché fungendo da informatore.
Interessante il fatto che di tale Giuseppe Scoppa, sacerdote spretato, «uomo vile e di nefandi costumi, ribaldo e ribelle, e come brutto di cuore, così ancora d’aspetto»[59], non trovi di peggio che dire «che era temuto più che amato»[60], con palese riferimento (e rifiuto) della massima machiavellica.
Infine, secondo un atteggiamento assolutamente logico, normale e soprattutto diffusissimo a tutti i livelli in qualsiasi tempo fin dal sorgere della civiltà – tranne che in un periodo impazzito come quello che stiamo attualmente attraversando –, risulta naturale il disprezzo per il sistema democratico, disprezzo che si esprime non solo nel rifiuto della base teoretica (quantitativa e non qualitativa) del voto, ma nell’evidenziare che, laddove sia ampiamente concesso, è sempre a rischio di essere messo in vendita, come avvenuto con il già ricordato Lorenzo Tonti, che
era di quelli che vendeva il suo voto, come molti de’ suoi consanguinei in occasione dell’imposizioni che nella Città si trattavano, come uomo venale gli fu facile ‹non› riparare a questa viltà, mentre non riparò alla propria coscienza.[61]
Concludo segnalando alcuni punti in cui Fuidoro sottolinea la differenza (innanzitutto caratteriale, ma non solo) esistente tra le diverse popolazioni italiche, accomunate soltanto dal fatto di abitare lungo la stessa penisola (ma in luoghi nettamente diversi). Nel primo caso avviene con un improvviso cambio di registro, in cui si lascia andare ad un passaggio poetico (inusuale nella sua asciutta stesura diaristica) dal sapore amaro:
così continuorno sino al seguente sabato mattino, giorno doloroso[62] a questo giardino d’Italia, come è chiamato questo Regno; mentre ogni forestiere n’ha goduto frutti sin dalla sua edificazione, senza che li Naturali suoi con ogni valore potessero per proprio destino fatale godere, con la propria virtù, né anco una fronda in altro terreno, ancor che italiano si fosse, con quella largità che ogni forestiere et oltramontano trova in questo suolo ad accomodarsi in ogni stato e condizione, non corrisposta ne’ loro Paesi a’ Napoletani.[63]
Poi lo scrittore ci regala una interessante informazione sociologica, quando afferma di aver incontrato un «forestiero […] vestito di negro alla moda d’Italia»[64] o un altro «vestito di porpora alla moda d’Italia, che è mezzo alla francese»[65]: segno evidente, quindi, dell’esistenza di una distintiva “moda di Napoli”, presumibilmente “mezza (se non intera) alla spagnola”.
Una conferma ulteriore della concezione di “non Italiani” che i Napolitani avevano di se stessi.
Gianandrea de Antonellis
[1] Ad esempio, il testo di Campanile non è citato nelle principali e più recenti opere su Masaniello, mentre Rosario Villari in Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero (1585-1648) (Mondadori, Milano 2012) lo cita di sfuggita in tre occasioni, facendo riferimento però al manoscritto conservato presso la biblioteca nazionale di Napoli.
[2] Francisco Elías de Tejada, Napoli spagnola, vol. V, Controcorrente, Napoli 2017, p. 386-390. Il testo dello studioso spagnolo è qui riprodotto in appendice.
[3] Cfr. ivi, p. 427, nota 263.
[4] Tra le opere di maggior successo di Filiberto Campanile (1565 ca.-1640 ca.) si annovera Dell’armi, overo insegne dei nobili, pubblicata in tre edizioni (1610, 1618 e 1680 postuma), trattato sul significato degli stemmi e sulla genealogia delle famiglie aristocratiche del Regno di Napoli. Altri suoi lavori furono L’idee, overo forme dell’eloquentia (1606), che espone le idee filosofiche di Ermogene, e L’historia dell’illustrissima famiglia Di Sangro (1625).
[5] Niccolò Toppi (Chieti, 1607 – Napoli, 1681), Biblioteca napoletana, Bulifon, Napoli 1678.
[6] Gaspare De Caro, voce Giuseppe Campanile, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume XVII (1974).
[7] Ibid.
[8] Niccolò Toppi, Biblioteca napoletana, cit., p 169.
[9] Gaspare De Caro, op. cit.
[10] Gaspare De Caro, op. cit.
[11] Ibid. La notizia è riportata, oltre che dal già citato Niccolò Toppi, anche da Lorenzo Giustiniani, La biblioteca storica, e topografica del Regno di Napoli, 1793, p. 177 (n. 41): «Giuseppe Campanile: Notizia di nobiltà (del Regno di Napoli) Lettere (a diversi). In Napoli 1671. in 4. f. Per quest’opera fu carcerato e morì in Vicaria il dì 24 Marzo del 1674».
[12] Flavio De Bernardinis, voce Vincenzo D’Onofrio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLI (1992)
[13] Ibid.
[14] Cfr. oltre, Bibliografia.
[15] Flavio De Bernardinis, voce Vincenzo D’Onofrio, in DBI.
[16] Ibid.
[17] In realtà, la libertà di esprimersi degli scrittori stipendiati dal Governo della Serenissima era abbastanza limitata, proprio in quanto gli autori erano dipendenti pubblici.
[18] Diario, 7 gennaio, 52r [Fuidoro].
[19] Nella trascrizione del testo saranno evidenziate dal segno ‡, nella presente introduzione, si indicherà tra partentesi quadre l’autore della citazione.
[20] Diario, 1° marzo, 64r [Fuidoro].
[21] Diario, 1° marzo, 64v [Fuidoro].
[22] Con il termine Popolo si intende il Popolo civile, cioè funzionari, professionisti, impiegati, commercianti, artigiani, etc., possessori cioè di “arte e parte”, rappresentati nel Sedile del Popolo e dal relativo Eletto, distinti quindi dalla plebe, priva di mezzi di sussistenza e di rappresentanza ufficiale.
[23] Magistrato incaricato «di fare, che le cose vadano per lo loro dritto sentiero, e andando altrimenti, impedirle, e darne contezza al Re o al Capitan Generale». Francesco Capecelatro, Origine della città, e delle famiglie nobili di Napoli, Gravier, 1769, p. 143.
[24] Diario, 9 luglio, 10r.
[25] Per fare un solo esempio: «Furono privati molti del Popolo per sospetti e fu fatto Capitano di Campagna Matteo Carola, guantaro di Forcella, gran ciarlatore». Diario, 33v [Campanile].
[26] È il caso del consenso concesso (!) da Masaniello ad una giovane povera vedova a nuove nozze, cfr. Diario, 14 luglio, 16r [Fuidoro].
[27] Diario, 15 luglio, 16v [Campanile]. Corsivo mio.
[28] «Questo fomento fu ampliato da altri cervelli torbidi d’ogni intorno, come laici, preti e frati che insoffiavano a’ Popolari». Diario, 24 ottobre, 36r-36v [Campanile].
[29] Diario, 18 febbraio, 61r [Fuidoro]. Corsivo nel testo.
[30] Diario, 24 ottobre, 36v [Campanile].
[31] Diario, 29 dicembre, 48v [autore incerto].
[32] Diario, 16 settembre; 32r [Fuidoro].
[33] Diario, 18 novembre, 39r [Fuidoro]
[34] «Né il Re di Francia fidò mai l’Armata al Ghisa, che era suo ribelle». Diario, 28 novembre, 40v [Fuidoro].
[35] «Agostino di Lieto, Capitano della Guardia del Ghisa, fu mandato a Roma con tesori di gioie, oro et argento e danari [svaligiati] dal Ghisa». Diario, 1° marzo, 64r [Fuidoro]. «Altri dissero che il Ghisa compliva con regiri di parole e che avea mandato tesori usurpati in Napoli a Roma, dove dovea fuggirsene con suo poco onore». Diario, 4 marzo, 65v [Campanile].
[36] Diario, 15 marzo, 68r [Fuidoro].
[37] «Ad alcuni Padri che venivano per pace, disse l’Annese che non volea se non guerra e se essi fossero ritornati l’avrebbe troncate le teste». Diario, 25 ottobre, 37r [Campanile].
[38] Diario, 20 novembre, 39r-39v [Fuidoro] Corsivo mio.
[39] Diario, 28 novembre, 40v [Fuidoro]
[40] Diario, 29 dicembre, 48r [autore incerto].
[41] Diario, 1° marzo, 64r [Fuidoro].
[42] Diario, 11 novembre; 38r [Campanile]. Corsivo mio.
[43] Diario, 28 dicembre; 48r [Campanile].
[44] Diario, 22 gennaio; 55r [Campanile].
[45] Il diarista lo chiama in due occasioni Lucas d’Andrada, ma dovrebbe trattarsi di Francisco Fernández de Castro Andrade, IX Conte di Lemos e VI Conte di Andrade, che al tempo era Gentiluomo di Camera di Filippo IV (a meno che non si tratti di un suo fratello).
[46] Diario, Aprile 1648, 73v [Fuidoro].
[47] Altrove distingue ulteriormente tra «Nobili, Gentiluomini e Cittadini» Diario, 1° marzo, 64r [Fuidoro].
[48] Un solo esempio: «Ma tornando al Tonti, che col favore del Capitano della Guardia del Ghisa, suo cognato, fu dechiarato Residente della Republica di Napoli appresso il Sommo Pontefice con annua provisione, che così lui come anco tutto il suo parentado per ogni grado a sé congiunto non avevano mai visto, né posseduto di beni di fortuna tanta summa». Diario, 7 gennaio, 51v [Fuidoro].
[49] Flavio De Bernardinis, voce Vincenzo D’Onofrio, in DBI.
[50] Diario, 16 settembre, 26v [Fuidoro].
[51] Diario, 13 luglio, 15v [Fuidoro]. Corsivo mio.
[52] Diario, 15 dicembre, 45v [Fuidoro]. Corsivo mio.
[53] Diario, 15 dicembre, 46r [Fuidoro].
[54] Diario, 9 luglio, 110v [Fuidoro].
[55] Ibid.
[56] Cfr. Antonio Capece Minutolo, Scritti politici, III volumi, Solfanelli, Chieti 2021-2022, in cui il concetto è ripetuto più volte.
[57] Diario, Aprile 1648, 75r [Fuidoro].
[58] Ibid.
[59] Diario, 2 gennaio,49v [Fuidoro]
[60] Diario, 3 gennaio, 50r [Fuidoro].
[61] Diario, 7 gennaio, 52r [Fuidoro]. Corsivo mio.
[62] Il sabato 5 ottobre 1647 segnò l’inizio delle ostilità tra la frangia del Popolo ribellatasi al Re e i rappresentanti e fautori dell’Ordine (Viceré, Nobiltà, Popolo civile). È da notare che poco oltre (29v), quando Campanile ricorda che «il venerdì a sera si tenne Consiglio Collaterale di Stato e di Guerra se si doveva opprimere a forza il Popolo», Fuidoro aggiunge: «Quelli di Guerra furono di parere di no ed altri votorno la rovina, che seguì ad ambe le parti». Decisione politica sbagliata, dunque, a fronte di un consiglio militare più lungimirante: la fazione popolare avrebbe infatti approfittato del cannoneggiamento da Sant’Elmo per gridare al tradimento ed incitare alla rivolta.
[63] Diario, 3 ottobre, 29r [Fuidoro]
[64] Diario, Aprile 1648, 75r [Fuidoro].
[65] Diario, 7 marzo, 66r [Fuidoro].
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