Napoli spagnola, volume III

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Francisco Elías de Tejada, Napoli spagnola, III volume, Le Spagne auree 1554-1598, a cura di Silvio Vitale, Controcorrente, Napoli 2004, p. 375, € 20

«Se si vuole analizzare un paesaggio, è necessario considerare non soltanto le vette più alte, ma anche le colline più basse». Con queste parole Francisco Elías de Tejada giustificava, parlando con Silvio Vitale, il proprio interesse nei confronti dei tanti autori minori che erano vissuti nella Napoli del Cinque-Seicento: per avere la corretta idea di quella che fu la vita culturale del Viceregno spagnolo era necessario non fermarsi solamente ad analizzare i personaggi più noti. Il risultato si è concretizzato nella monumentale Napoles ispanico in cinque tomi, edita a Madrid nel 1960 e che solo ora vede integralmente la luce per la prima volta in lingua italiana, curata appunto da Silvio Vitale per i tipi dell’editore Controcorrente.

Dopo La tappa aragonese (Napoli 1999, p. 321, € 16) e Le decadi imperiali (2002, p. 333, € 16), appare ora il terzo volume, dedicato al periodo 1554-1598, vale a dire il regno di Filippo II, che Elias de Tejada definisce “aureo” (per inciso, il sottotitolo del prossimo tomo, dedicato al regno di Filippo III, sarà definito più modestamente “argenteo” e l’ultimo volume, che copre il periodo 1621-1655, quasi coincidendo con la guerra dei Trent’anni, addirittura “Le Spagne rovinate”). Siamo quindi nel fulgore della potenza della Spagna, anzi, come continua a sottolineare l’autore, delle Spagne, al plurale, perché la corona di Filippo II – ricorda nell’introduzione Gabriele Fergola, che ha tradotto il volume – governa su Castiglia, Aragona, Catalogna, Andalusia, Galizia, Portogallo, Americhe, Filippine, Milano, Sardegna, Sicilia, Napoli. E quest’ultima non è certo l’ultima città del vasto impero “su cui non tramonta mai il sole”, anzi: viene immediatamente dopo Madrid, come si evince dai continui scambi tra la capitale e la città del Vesuvio, dalla qualità dei Viceré mandati a rappresentare quello che viene costantemente chiamato Re “di Napoli” o “delle Spagne”, ma mai “di Spagna” o “di Castiglia”.

Il lavoro di Francisco Elías de Tejada non passa tanto in rassegna gli eventi storici, quanto analizza in maniera particolarmente approfondita l’intero tessuto sociale e culturale della Napoli spagnola. Come accennato, l’autore non si sofferma non solo sulle «vette più alte», sui personaggi più noti (in questo volume lo storico Camillo Porzio, il giurista Giovanni Antonio Summonte, il drammaturgo Giambattista della Porta, il poeta Torquato Tasso, i filosofi Giordano Bruno e Bernardino Telesio), ma anche su tanti scrittori minori, alcuni dei quali neppure ricordati dalle ottocentesche Memorie storiche degli scrittori del Regno di Napoli di Camillo Minieri Riccio (1844): una serie di personaggi che, come appunto le colline di un paesaggio, contribuiscono a rappresentare l’insieme di un periodo storico complesso e troppo spesso sbrigativamente liquidato come di oppressione.

Colpa di una storiografia spesso faziosa, di una immagine oleografica negativa tramandata anche dai pur meravigliosi Promessi sposi, che ha divulgato – per parlare solamente di Milano e di Napoli – la leggenda nera del Governatorato e del Viceregno spagnolo, visto come momento di bieco sfruttamento delle risorse locali da parte degli Spagnoli (quelli che, secondo il Manzoni, «insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese», «accarezzavano le spalle a qualche marito» e non mancavano di «alleggerire i contadini dalle fatiche della vendemmia»), ma che cade semplicemente di fronte alle testimonianze in primo luogo architettoniche che le due città e i loro circondari offrono a chi voglia approfondire il periodo in questione.

Milano non fu solo la città della rivolta contro i fornai o della peste, ma soprattutto la culla del barocco, con la sua Sant’Alessandro che precedette di qualche decennio la romana Sant’Agnese a piazza Navona; dal canto suo Napoli “importò” il Caravaggio, Guido Reni, lo Spagnoletto e i maggiori artisti contemporanei per abbellire chiese e palazzi.

Del resto anche uno storico come Giuseppe Galasso, scrivendo sul Corriere della Sera del 3 agosto 2004 a proposito del volume collettaneo Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana (a cura di Aurelio Musi, Guerini e Associati, Milano 2003), ha parlato di «grande alibi storico (insieme con la Chiesa: non lo si dimentichi!) dell’Italia moderna, oppressa e ridotta da Madrid (e da Roma!) nelle disgraziate condizioni da cui partì il Risorgimento e che ancor oggi sono ravvisate nella realtà del Paese (specie del Sud) quando gli Italiani vogliono o debbono criticarsi e dicono di non essere abbastanza “europei”». E ha aggiunto «i re spagnoli non ebbero opposizioni sostanziali. Furono considerati sovrani legittimi e riscossero un diffuso sentimento di lealismo dinastico. [Quando lasciarono l’Italia] i più dei loro sudditi italiani avrebbero preferito che rimanessero».

Alibi storico o leggenda nera che fu creata, al pari di molte altre, nel periodo risorgimentale ed è per questo che tra gli aggettivi negativi usati dall’autore primeggiano “europeo” e “garibaldino”, intesi il primo come coagulo di ciò che è moderno nel senso di antitradizionale (machiavellismo, protestantesimo, razionalismo), il secondo come sinonimo di critica partigiana e quindi in malafede.

Dal punto di vista positivo, invece, Elias de Tejada individua l’“eroe” di questo periodo in Ferrante Carafa, marchese di San Lucido, uomo d’armi e di lettere, che combatté sotto Carlo V e tradusse l’Odissea, sedò i moti napoletani del 1547 (scoppiati contro il tentativo di introduzione dell’inquisizione spagnola da parte del viceré don Pedro de Toledo) ed animò l’Accademia dei Sireni, dedicando a Filippo II le proprie Memorie. Secondo l’autore, Carafa incarna perfettamente quello spirito di napoletanità spagnola, non chiusa «nella mera esaltazione del territorio, ma [volta a] vedere il regno patrio nella funzione armata del soldato. […] Ma se la ricorrente melodia del Pontano aveva supposto la reincarnazione delle ninfe, in Ferrante Carafa essa diverrà incitamento alla lotta contro la minaccia turca. Infatti in lui la descrizione entusiasta di tante bellezze si conclude che un grido di guerra: “Però Napoli mia, del cielo erede / d’ogni beltà; fa ch’oltra l’Oriente / s’oda il valor de i tuoi guerrier sì conti» (p. 98) con esplicito riferimento alla concreta minaccia turca.

Ma naturalmente Carafa non è l’unico “napoletano autentico”, e alla sua biografia si affianca una abbondante serie di ritratti di altri “spagnoli napoletani” (nel senso di nati nel Viceregno, mentre gli altri vengono chiamati da Elias de Tejada “spagnoli iberici”), a dimostrazione che effettivamente il Viceregno fu il periodo di maggior lustro per Napoli; lustro che, paradossalmente, venne meno con l’arrivo dei Borbone: l’indipendenza, infatti, fece in modo che la seconda città dell’Impero più vasto del mondo fosse trasformata sì in capitale, ma di un Regno ben più limitato (geograficamente e politicamente, anche se non culturalmente). Lo splendore spagnolo venne presto dimenticato, anche a causa della detta leggenda nera, e quindi ben viene questo fondamentale saggio storico a fare giustizia.

Gianandrea de Antonellis


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