Antispagnolismo e identità italiana

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Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, a cura di Aurelio Musi, Guerini e Associati, Milano 2003, p. 447, €25

«La categoria dell’antispagnolismo ha svolto un ruolo di straordinaria importanza: essa ha infatti costituito, nel corso dell’Ottocento, un potente mito negativo di fondazione nazionale» (p. 9) scrive Aurelio Musi nella Prefazione agli atti del convegno di studi svoltosi a Maiori nel maggio 2002 ed incentrato sul tema del paradigma storiografico dell’antispagnolismo. Nel suo intervento, Fonti e forme dell’antispagnolismo nella cultura italiana tra Ottocento e Novecento, Musi parla di «atteggiamento mentale» sviluppatosi «nell’Ottocento romantico soprattutto in quei Paesi in cui il trinomio patria-nazione-libertà ebbe bisogno, più che altrove, di costruire miti di fondazione dei nuovi Stati unitari e indipendenti» (p. 11).

In senso deteriore, lo spagnolismo è stato inteso come malgoverno, come braccio armato della Controriforma, come oppressione di tutte le libertà e infine come civiltà del formalismo e dell’esteriorità.

Tra i primi e principali individuatori della Spagna quale causa della decadenza italiana c’è Vincenzo Cuoco, che apre la strada ad uno stuolo di detrattori, tra cui si distingue Francesco De Sanctis, che parla addirittura di «malgoverno papale spagnolo» (p. 19, originariamente in F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, p. 811, Torino 1975) unendo Chiesa e dominio spagnolo in una sorta di endiadi costitutiva nell’aggravamento delle condizioni della penisola tra XVI e XVII secolo. Ad essi lo studioso irpino contrappone Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei e Paolo Sarpi, «primi santi del mondo moderno». Negli anni Ottanta del XIX secolo viene addirittura coniato il termine spagnolismo parlamentare per criticare il Ministro del Consiglio Giovanni Nicotera e la sua pretesa partigianeria (il “nicoterismo”), mentre nella relazione dell’Inchiesta Saredo (che nel 1901 mise a nudo la corruzione amministrativa del Comune di Napoli) si fa risalire la causa del presente malgoverno all’«infausto periodo della dominazione spagnola» (p. 27).

A rompere l’omogeneità del fronte antispagnolo che prosegue nei primi decenni del Novecento giungono Benedetto Croce e Gioacchino Volpe, il primo riconoscendo alcuni meriti alla dominazione iberica nel Meridione d’Italia (la protezione del territorio e la fine della potenza semisovrana del baronaggio), il secondo cercando di superare la “leggenda nera”. Nel dopoguerra la cultura di sinistra riprese i temi dell’antispagnolismo di marca desanctisiana, in particolar modo con Gabriele Pepe, per il quale la decadenza meridionale coincide con la presenza controriformista spagnola, che avrebbe allontanato l’Italia del Sud dal fervore protestante europeo: «la storia dell’aggravarsi della crisi del mezzogiorno è la storia della dominazione spagnola» (p. 35, originariamente G. Pepe, Il Mezzogiorno d’Italia sotto gli Spagnoli, Sansoni, Firenze 1952, p. X). Lo storico critica anche la posizione di Croce, negando i benefici derivati dal far parte dell’Impero: la Spagna avrebbe non protetto il Regno di Napoli e Sicilia, ma soltanto utilizzato in funzione di barriera antiturca.

Nella più recente storiografia antispagnola si possono individuare, secondo Musi, due direzioni: quella  del “ritorno a De Sanctis”, in cui rientrerebbero gli scritti di Raffaele Ajello; e la “teoria del divario”, che sottolinea la distanza tra sviluppo del Nord e sottoviluppo del Sud, a cui possono essere collegati gli studi di Rosario Villari.

Il volume presenta altre undici relazioni tenute da Marcello Verga, Giuseppe Ricuperati, Eugenio Di Rienzo, Francesca Cantù sul tema Tra Seicento e Settecento: i presupposti; da Carlo Bitossi, Paolo Preto, Antonino De Francesco, Francesca Fausta Gallo ed Antonello Mattone sui Caratteri comuni e caratteri regionali dell’antispagnolismo; da Gianvittorio Signorotto e Cesare Mozzarelli sul Novecento. In chiusura viene riportata la tavola rotonda che ha visto protagonisti Giovanni Muto, Angelantonio Spagnoletti e Maria Antonietta Visceglia.

In particolare Muto propone una tesi pessimistica (L’Impero come impossibile identità comune, p.371-394) negando aprioristicamente la possibilità di far convivere le etnie spagnole, italiane e tedesche sotto l’unica corona di Carlo V, posizione che sembra però risentire della conoscenza degli avvenimenti posteriori (soprattutto della frattura luterana), mentre la Visceglia (Mito/antimito, spagnolismo/antispagnolismo: note per una conclusione provvisoria, p. 407-429) ricorda come in seguito alle insorgenze spagnole contro Napoleone, sia in Germania che in Italia l’ammirazione per la resistenza antifrancese si sia intrecciata alla rivalutazione per la cultura e la letteratura spagnola quale esempio di quel carattere nazionale che negli altri due Paesi mancava (tesi sostenuta anche da De Rienzo, L’antispagnolismo a Napoli da Genovesi a Filangieri, p. 113-133). Autori come Berchet, Tommaseo e Guglielmo Pepe propugnarono un sentimento filospagnolo, ma ebbero ben scarso seguito rispetto alle critiche dirette ed indirette di De Sanctis e Manzoni.

Va infine notato che in nessuno dei quindici interventi viene citato Francisco Elias de Tejada, che con i suoi studi sul dominio spagnolo in Italia ed in particolare con Napoles ispanico (Montejurra, Madrid 1960, trad. italiana Controcorrente, Napoli 1999-2017) ha dato una interpretazione interessante e fuori dalle correnti “antispagnoliste” del periodo in questione.

Gianandrea de Antonellis


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